Riflessioni letterarie sul tema della guerra



Tiziano Terzani   Lettera dall’Himalaya , 17 gennaio 2002

  “La guerra non rompe solo le ossa della gente, rompe i rapporti umani”, mi diceva a Kabul quel vulcanico personaggio che è Gino Strada. Per riparare quei rapporti, nell’ospedale di Emergency, dove ripara ogni altro squarcio del corpo, Strada ha una corsia in cui i giovani soldati talebani stanno a due passi dai loro “nemici”, soldati dell’Alleanza del Nord. Gli uni sono prigionieri, gli altri no; ma Strada spera che le simili mutilazioni, le simili ferite li riavvicineranno.

    Il dialogo aiuta enormemente a risolvere i conflitti. L’odio crea solo altro odio. Un cecchino palestinese uccide una donna israeliana in una macchina, gli israeliani reagiscono ammazzando due palestinesi, un palestinese si imbottisce di tritolo e va a farsi saltare in aria assieme a una decina di giovani israeliani in una pizzeria; gli israeliani mandano un elicottero a bombardare un pulmino carico di palestinesi, i palestinesi… e avanti di questo passo. Fin quando? Finché sono finiti tutti i palestinesi? Tutti gli israeliani? Tutte le bombe?

   Certo: ogni conflitto ha le sue cause, e queste vanno affrontate. Ma tutto sarà inutile finché gli uni non accetteranno l’esistenza degli altri ed il loro essere eguali, finché noi non accetteremo che la violenza conduce solo ad altra violenza.

   “Bei discorsi. Ma che fare?” mi sento dire, anche qui nel silenzio.

   Ognuno di noi può fare qualcosa. Tutti assieme possiamo fare migliaia di cose.

   La guerra al terrorismo viene oggi usata per la militarizzazione delle nostre società, per produrre nuove armi, per spendere più soldi per la difesa. Opponiamoci, non votiamo per chi appoggia questa politica, controlliamo dove abbiamo messo i nostri risparmi e togliamoli da qualsiasi società che abbia anche lontanamente a che fare con l’industria bellica. Diciamo quello che pensiamo, quello che sentiamo essere vero: ammazzare è in ogni circostanza un assassinio.

   Parliamo di pace, introduciamo una cultura di pace nell’educazione dei giovani. Perché la storia deve essere insegnata soltanto come un’infinita sequenza di guerre e di massacri?

da Lettere contro la guerra


Fabrizio De Andrè - La guerra di Piero

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi

Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente

Così dicevi ed era d'inverno
E come gli altri verso l'inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve

Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po' addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce

Ma tu no lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a passar la frontiera
In un bel giorno di primavera

E mentre marciavi con l'anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore

Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue

E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore

E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l'artiglieria
Non ti ricambia la cortesia

Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato

Cadesti a terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno

Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all'inferno
Avrei preferito andarci in inverno

E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole

Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall'ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi


Primo Levi - La tregua

Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e più vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri più urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.


Mario Rigoni Stern - Il sergente della neve

Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno. E quando ci ripenso provo il terrore di quella mattina di gennaio quando la Katiuscia, per la prima volta, ci scaraventò le sue settantadue bombe.


Fabio Geda - Nel mare ci sono i coccodrilli

Tre cose non devi mai fare nella vita, Enaiat jan, per nessun motivo. La prima è usare le droghe.  Ce ne sono che hanno un odore e un sapore buono e ti sussurrano alle orecchie che sapranno farti stare meglio di come tu potrai mai stare senza di loro. Non credergli. Promettimi che non lo farai.

 Promesso.

La seconda è usare le armi. Anche se qualcuno  farà del male alla tua memoria, ai tuoi ricordi o ai tuoi affetti, insultando Dio, la terra, gli uomini, promettimi che la tua mano non  si stringerà mai attorno a una pistola, a un coltello, a una pietra e neppure intorno a un mestolo di legno per il qhorma palaw , se quel mestolo di legno serve a ferire un uomo. Promettilo.

Promesso.

La terza è rubare. Ciò che è tuo ti appartiene, ciò che non è tuo no. I soldi che ti servono li guadagnerai lavorando, anche se il lavoro sarà faticoso. E non trufferai mai nessuno, Enaiat, vero? Sarai ospitale e tollerante con tutti. Promettimi che lo farai.

Promesso.


Livio - Il ratto delle Sabine, Ab urbe condita I, 13

Dopo il rapimento delle donne sabine da parte dei Romani, i Sabini mossero guerra contro Roma per vendicare l’offesa subita. Le donne sabine allora intervennero sul campo di battaglia, frapponendosi tra le schiere nemiche ed appellandosi al sacro vincolo di parentela tra padri e mariti, ottennero che si mettesse fine alla guerra e che i due popoli diventassero uno solo.  

Tum Sabinae mulieres, quarum ex iniuria bellum ortum erat, crinibus passis scissaque veste, victo malis muliebri pavore, ausae se inter tela volantia inferre, ex transverso impetu facto dirimere infestas acies, dirimere iras, hinc patres, hinc viros orantes, ne sanguine se nefando soceri generique respergerent, ne parricidio macularent partus suos, nepotum illi, hi liberum progeniem. "Si adfinitatis inter vos, si conubii piget, in nos vertite iras; nos causa belli, nos volnerum ac caedium viris ac parentibus sumus; melius peribimus quam sine alteris vestrum viduae aut orbae vivemus." Movet res cum multitudinem tum duces; silentium et repentina fit quies; inde ad foedus faciendum duces prodeunt. Nec pacem modo sed civitatem unam ex duabus faciunt. Regnum consociant: imperium omne conferunt Romam.

Allora le donne sabine, dall’offesa delle quali era cominciata la guerra, con i capelli sciolti e la veste stracciata, vinta per le sventure la paura femminile, osando gettarsi tra i dardi saettanti ed irrompendo di fianco, separarono le schiere opposte, divisero gli odi, pregando di qua i padri, di là i mariti di non bagnarsi con il sangue empio del suocero e del genero, di non macchiare i loro figli con un parricidio, quelli la discendenza dei nipoti, questi la discendenza dei figli. “Se vi rincresce la parentela tra voi, se vi rincresce il matrimonio, rivolgete contro di noi la vostra ira; noi siamo la causa della guerra, la causa delle ferite e delle stragi per i mariti ed i padri; moriremo piuttosto che vivere vedove o orfane senza gli uni e gli altri di voi”. LA cosa turba sia la moltitudine che i capi; cala il silenzio ed un’improvvisa quiete; poi i comandanti avanzano per stipulare la pace. E non solo fanno la pace ma di due città ne formano una. Uniscono il regno: trasferiscono a Roma il governo.


Euripide, Troiane

Secondo episodio (vv 466-510)

Ecuba prigioniera, dopo la caduta della città di Troia, piange la sua sorte: da regina di una prospera città e feconda madre di figli e figlie, ora giace a terra, recisa la chioma  sulle tombe dei morti, relitto umano destinato a servire da vecchia i vincitori greci. Ha visto il marito Priamo sgozzato presso l’altare patrio, le figlie prigioniere,  Cassandra condotta via da Agamennone per essere uccisa lontano, la vergine Polissena sacrificata sulla tomba di Achille, ma ancora ignora la sorte di §Polidoro, ucciso per avidità dall’ospite Polimestore e quella tragica del piccolo Astianatte che, strappato dalle braccia di Andromaca sarà gettato dalle torri di Troia.

Rhesis di Ecuba (traduzione di Ghiselli):

Lasciatemi - non è certo gradito quello che non piace, fanciulle –

giacere caduta: infatti sono degni di cadute

i dolori che soffro e ho sofferto e soffrirò ancora,

o dei…certo, cattivi alleati invoco,

tuttavia ha una qualche bellezza invocare gli dèi,

quando uno di noi incappi in una sorte distorta.

Per prima cosa dunque mi sta a cuore cantare il bene;

nelle sventure infatti farò entrare maggior compianto.

Ero di famiglia regale e andai sposa in un palazzo reale,

e qui ho generato figli eccellenti,

non solo numero, ma egregi tra i Frigi;

quali una donna Troiana, né Greca né barbara

potrebbe vantarsi di averne mai partoriti.

E pure quelli vidi cadere sotto la lancia ellenica

e questi capelli ho tagliato sulle tombe dei morti,

e il generatore Priamo ho pianto non sentendo dire

da altri, ma io stessa con questi occhi l’ho visto

sgozzato sul focolare dell’altare domestico,

e la città presa. E le ragazze che allevai

per onore speciale degli sposi,

le ho allevate per altri e mi sono state strappate dalle braccia.

E non ho la speranza di essere viste da quelle,

né io le rivedrò mai più.

Infine, coronamento dei miei sciagurati mali,

io giungerò in Grecia vecchia donna schiava.

E ai servizi che sono i più nocivi per questa vecchiaia,

a questi mi assegneranno, o come serva di porte

a custodire le chiavi, io che ho generato Ettore,

o a preparare il pane, e ad avere un giaciglio sul suolo

per la schiena rugosa, dai letti regali

vestita sul lacero corpo di laceri cenci

di pepli, disdicevoli ad avere per chi è stato prospero.

Ahi me infelice, per un solo matrimonio di una sola

donna quali sciagure mi sono toccate e quali mi toccheranno!

O figlia, Cassandra compagna degli dèi nel delirio bacchico,

per quali sventure hai dissolto la tua castità!

E tu, infelice, dove mai sei, Polissena,

come né prole maschile, né femminile,

con tanti che sono nati soccorre questa sventurata!

Perché dunque mi rialzate? Per quali speranze?

Il piede raffinato un tempo, a Troia,

ma che ora è schiavo, conducetelo a un giaciglio disteso al suolo

e a guanciali di sassi, affinché caduta sopra vi possa morire

consumandomi in lacrime. Dei felici

non ritenete di buona sorte nessuno, prima che sia morto.

Esodo (vv 1156- 1206)

Ecuba maledice gli Achei per il tremendo assassinio di un innocente e compiange la sorte del piccolo nipote Astianatte: dapprima piange i suoi riccioli recisi che tanto la madre Andromaca, come tutte le madri, aveva coperto di baci, piange le manine e la bocca che le aveva fatto dolci promesse.

Rhesis di Ecuba (traduzione di Ghiselli):

Ponete a terra lo scudo rotondo di Ettore,

dolorosa vista e non gradita a guardarsi per me.

O voi che maggior vanto di spada che di senno,

che cosa temendo da questo bambino, Achei,

avete compiuto un assassinio inaudito? Che un giorno

avrebbe raddrizzato Troia caduta? Nulla dunque eravate,

dal momento che, avendo Ettore successo nei combattimenti

noi perivamo, e c’era un’altra innumerevole schiera,

mentre ora che la città è stata presa e i Frigi distrutti,

avete avuto timore di un bambino così: non approvo la paura,

di chiunque ne abbia senza passarci attraverso con la ragione.

O carissimo, come a te giunse sventurata la morte!

Se infatti fossi morto per la città, dopo avere ottenuto giovinezza

nozze e potere degno di un dio

saresti stato felice, se una di queste è cosa felice.

Ora invece non sai di averlo visto e conosciuto nella tu vita,

figlio, e pur avendoli in casa non ne hai goduto per niente.

Infelice, come miseramente le patrie mura, la cinta turrita del Lossia,

ti hanno reciso i ricci del capo

che tanto tua madre ha curato

e coperto di baci; da questo ora esce stridendo, tra le ossa spezzate

 il sangue, per non dire di altri orrori.

O mani, come conservate la dolce figura

del padre, ma nelle giunture giacete dissolte davanti a me.

O cara bocca che spesso lanciavi vanterie,

sei morta, mi mentisti, quando gettandoti sulle mie vesti

“o madre - dicevi - certo per te una folta ciocca

dei riccioli mi taglierò, e sulla tomba condurrò

cortei di compagni, dandoti il caro saluto.

invece non tu me, ma io te più giovane,

io vecchia senza più polis né figli seppellisco un misero cadavere.

Ahimé, i molti abbracci e le mie cure

E quei sonni sono passati per me, che cosa mai

potrebbe scrivere di te sulla tomba un poeta?

‘questo bambino lo uccisero un giorno gli Argivi

Per paura’ disonorevole epigrafe per l’Ellade.

Ma almeno, pur non avendo ottenuto i beni paterni avrai tuttavia

Lo scudo di vimine dal dorso di bronzo in cui sarai sepolto.

O tu che proteggevi il braccio bello

di Ettore, hai perduto il tuo miglior custode.

Come dolce resta l’impronta nella tua imbracciatura

e sugli orli ben torniti del bordo il sudore

che Ettore spesso tra le fatiche stillava

dalla fronte avvicinandoti al mento.

Portate qua l’ornamento per il misero cadavere,

da quanto ci avanza: infatti il destino non dà

condizioni per la bellezza. Ma di quante cose io ho, le riceverai.

stolto tra i mortali è chi credendo di stare bene

senza mai scivolare, gioisce: infatti le sorti con i suoi versi

come un uomo capriccioso, saltano ora qua

ora là, e nessuna stessa persona rimane mai fortunata.


Omero - Illiade, Il colloquio tra Ettore e Andromaca

L’indovino Eleno, figlio di Priamo, consiglia a Ettore di andare dalla madre Ecuba e di dirle di condurre le donne anziane presso il tempio di Atena, alla quale occorre portare vesti e animali, in segno di offerta. Ettore si reca dunque dalla madre, poi va a casa di Paride, che è intento a lucidare le armi, per esortarlo a combattere. Infine si dirige verso casa in cerca della moglie Andromaca, ma non la trova: avendo saputo della difficile situazione in cui si trovano i Troiani, ella si è avviata con il figlio Astianatte alle porte Scee, ai confini della città. Ettore allora la raggiunge…

Iliade (libro VI, vv. 392-413; 429-502)

E quando, attraversata la gran città, giunse alle porte
Scee, da cui doveva uscir nella piana,
qui la sposa ricchi doni gli venne incontro correndo,
Andromaca, figliuola d’Eezíone magnanimo,
Eezíone, che sotto il Placo selvoso abitava
Tebe Ipoplacia, signore di genti cilice;
la sua figlia appartiene ad Ettore elmo di bronzo.
Dunque gli venne incontro, e con lei andava l’ancella,
portando in braccio il bimbo, cuore ingenuo, piccino,
il figlio d’Ettore amato, simile a vaga stella.
Ettore lo chiamava Scamandrio, ma gli altri
Astianatte, perché Ettore salvava Ilio lui solo.
Egli, guardando il bambino, sorrise in silenzio:
ma Andromaca gli si fece vicino piangendo,
e gli prese la mano, disse parole, parlò così:
«Misero, il tuo coraggio t’ucciderà, tu non hai compassione
del figlio così piccino, di me sciagurata, che vedova presto
sarò, presto t’uccideranno gli Achei,
balzandoti contro tutti: oh, meglio per me
scendere sotto terra, priva di te; perché nessun’altra
dolcezza, se tu soccombi al destino, avrò mai,
solo pene! il padre non l’ho, non ho la nobile madre.
[…] Ettore, tu sei per me padre e nobile madre
e fratello, tu sei il mio sposo fiorente;
ah, dunque, abbi pietà, rimani qui sulla torre,
non fare orfano il figlio, vedova la sposa;
ferma l’esercito presso il caprifico, là dove è molto
facile assalir la città, più accessibile il muro;
per tre volte venendo in questo luogo l’hanno tentato i migliori
compagni dei due Aiaci, di Idomeneo famoso,
compagni degli Atridi, del forte figlio di Tideo:
o l’abbia detto loro chi ben conosce i responsi,
oppure ve li spinga l’animo stesso e li guidi!».
E allora Ettore grande, elmo abbagliante, le disse:
«Donna, anch’io, sì, penso a tutto questo; ma ho troppo
rossore dei Teucri, delle Troiane lungo peplo,
se resto come un vile lontano dalla guerra.
Né lo vuole il mio cuore, perché ho appreso a esser forte
sempre, a combattere in mezzo ai primi Troiani,
al padre procurando grande gloria e a me stesso.
Io lo so bene questo dentro l’anima e il cuore:
giorno verrà che Ilio sacra perisca,
e Priamo, e la gente di Priamo buona lancia:
ma non tanto dolore io ne avrò per i Teucri,
non per la stessa Ecuba, non per il sire Priamo,
e non per i fratelli, che molti e gagliardi
cadranno nella polvere per mano dei nemici,
quanto per te, che qualche acheo chitone di bronzo,
trascinerà via piangente, libero giorno togliendoti:
allora, vivendo in Argo, dovrai per altra tessere tela,
e portar acqua di Messeíde o Iperea,
costretta a tutto: grave destino sarà su di te.
E dirà qualcuno che ti vedrà lacrimosa:
“Ecco la sposa d’Ettore, ch’era il più forte a combattere
fra i Troiani domatori di cavalli, quando lottavan per Ilio!”.
Così dirà allora qualcuno; sarà strazio nuovo per te,
priva dell’uomo che schiavo giorno avrebbe potuto tenerti lontano.
Morto, però, m’imprigioni la terra su me riversata,
prima ch’io le tue grida, il tuo rapimento conosca!».
E dicendo così, tese al figlio le braccia Ettore illustre:
ma indietro il bambino, sul petto della balia bella cintura
si piegò con un grido, atterrito all’aspetto del padre,
spaventato dal bronzo e dal cimiero chiomato,
che vedeva ondeggiare terribile in cima all’elmo.
Sorrise il caro padre, e la nobile madre,
e subito Ettore illustre si tolse l’elmo di testa,
e lo posò scintillante per terra;
e poi baciò il caro figlio, lo sollevò fra le braccia,
e disse, supplicando a Zeus e agli altri numi:
«Zeus, e voi numi tutti, fate che cresca questo
mio figlio, così come io sono, distinto fra i Teucri,
così gagliardo di forze, e regni su Ilio sovrano;
e un giorno dica qualcuno: “È molto più forte del padre!”,
quando verrà dalla lotta. Porti egli le spoglie cruente
del nemico abbattuto, goda in cuore la madre!».
Dopo che disse così, mise in braccio alla sposa
il figlio suo; ed ella lo strinse al seno odoroso,
sorridendo fra il pianto; s’intenerì lo sposo a guardarla,
l’accarezzò con la mano, le disse parole, parlò così:
«Misera, non t’affliggere troppo nel cuore!
nessuno contro il destino potrà gettarmi nell’Ade;
ma la Moira, ti dico, non c’è uomo che possa evitarla,
sia valoroso o vile, dal momento ch’è nato.
Su, torna a casa, e pensa all’opere tue,
telaio, e fuso; e alle ancelle comanda
di badare al lavoro; alla guerra penseran gli uomini
tutti e io sopra tutti, quanti nacquero ad Ilio».
Parlando così, Ettore illustre riprese l’elmo
chiomato; si mosse la sposa sua verso casa,
ma voltandosi indietro, versando molte lacrime;
e quando giunse alla comoda casa
d’Ettore massacratore, trovò dentro le molte
ancelle, e ad esse tutte provocò il pianto:
piangevano Ettore ancor vivo nella sua casa,
non speravano più che indietro dalla battaglia
sarebbe tornato, sfuggendo alle mani, al furore dei Danai.